• Storie

    Gli anni in tasca

    17 Luglio 2019 • Eleonore

    Gli anni in tasca è una collana di Topipittori tutta dedicata alle autobiografie d’infanzia e adolescenza, di autori più o meno noti. Sul loro sito la collana è presentata così:

    Gli anni in tasca è una raccolta di narrazioni autobiografiche sull’esperienza dell’infanzia e dell’adolescenza, dedicate a tutti i lettori, ma in particolare a giovani lettori, dai 12 anni in poi. Il progetto nasce con l’idea di restituire agli adulti un ruolo forte come narratori, capaci di offrire ai ragazzi, attraverso il racconto di sé bambini, la traccia e la memoria di esperienze autentiche ed esistenzialmente significative.

    Il racconto vivo del proprio passato, della propria autentica esperienza infantile è un modo interessante per comunicare il valore che può avere un racconto personale, non in quanto dato meramente autobiografico, ma come generatore di significato rispetto all’esperienza di vita non solo privata, ma collettiva.

    Le persone invitate a raccontare la loro esperienza sono diverse per età, sesso, nazionalità, professione, origine, classe sociale. Grazie alle loro storie andrà a comporsi una sorta di collezione di infanzie del presente e del passato, un composito e variegato quadro di memorie, narrazioni, vissuti capace di creare un senso importante per tutti: ragazzi e adulti.

    Questi piccoli libri ci stanno piacendo così tanto che abbiamo deciso di dedicare loro un progetto fotografico, che stiamo pubblicando su Instagram e che condividiamo anche qui perché rimanga traccia sia delle immagini che delle citazioni prese direttamente dai libri.

    Anna Castagnoli, Super 8, collana Gli anni in tasca, Topipittori

    Ecco la scheda del libro e alcune citazioni.

    Un’estate del 1973, mia madre sistemò una sdraio sul patio della nostra casetta verde alla periferia di Seattle e lesse tutti i libri del dottor Spock. 
    Il dottor Spock era un pediatra molto in voga in quegli anni di grandi sconvolgimenti culturali. Riassunta in soldoni la teoria di questo dottore è: ai bambini bisogna lasciar fare tutto quello che vogliono. Così mia madre decise di non preoccuparsi troppo dei miei istinti omicidi e suicidi e mi lasciò crescere nella più assoluta libertà. Nella nostra infanzia, grazie al dottor Spock, siamo stati dei selvaggi. Potevamo dipingere sui muri. Fare il bagno nelle pozzanghere dopo la pioggia e tornare a casa coperti di fango. Andare coi pattini per casa rigando le piastrelle. Saltare sui letti. Uscire di casa la mattina e tornare quando faceva buio. Tagliare i capelli alle bambole o strappargli gli occhi. Smontare i giochi e lasciarli smontati per sempre. Mettere i bigodini ai cani. Mangiare per terra davanti alla televisione. Arrampicarci sulla cima degli armadi e dormire nei cassetti aperti. (…)
    Però delle regole le avevamo anche noi, poche, ma le avevamo. La più severa e rispettata era questa: bisogna fare silenzio quando il pane lievita.

    Quando si é bambini non si ha una visione lucida delle cose, si ha una visione traslucida. Il verde delle chiome degli alberi, dei prati, è quello iridescente dei ramarri; il cielo, quando è sereno, è di un blu abisso-di-mare che neanche a disegnarlo si riuscirebbe a renderlo così. Il bianco di una tovaglia, di un sorriso, del passepartout di un quadro, di un muro (per non parlare di quello della neve) possono fare persino male agli occhi. È per il fatto che i bambini guardano davvero le cose, a differenza dei grandi, che le guardano per finta.

    Bernard Friot, Un altro me, collana Gli anni in tasca, Topipittori

    Ecco la scheda del libro e alcune citazioni.

    Non ho ragione di avere paura
    Ho centomila ragioni di avere paura.
    Un accento sbagliato nel dettato.
    Un bottone che manca ai pantaloni.
    Una macchia d’inchiostro sul tappeto.
    Un quaderno strappato.
    Un buongiorno dimenticato.
    Una parola di troppo.
    Un bicchiere rotto.
    Basta a distruggere l’equilibrio.
    Cammini su un sottile strato di ghiaccio, 
    scivoloso e fragile.
    A ogni passo puoi cadere o sprofondare.
    È la vita.
    Bisogna rispettare le regole.
    Regole che nessuno ti ha insegnato.
    A te indovinarle.
    Se no, tanto peggio, sei eliminato.
    È la vita. 

    In verità, leggo per pigrizia. Leggere rappresenta il minimo sforzo. Durante la lettura, il corpo, immobile, rilassato, steso sul letto, si dissolve, si fa dimenticare. 
    Leggo per pigrizia di vivere. Ci vuole così poca energia per leggere, e tanta per vivere. Leggo voltando la schiena, per sfuggire gli sguardi e scomparire fra le righe. 
    La vita nei libri non è reale. Le righe, i paragrafi, i capitoli danno vita a un mondo ordinato, logico, prevedibile. C’è sempre un inizio e una fine, e fra le due, una linea retta: leggere è tagliare seguendo la linea tratteggiata. 
    La vita vera se ne frega, va in tutte le direzioni, a zig zag, a ogni istante bisogna stare all’erta, nessuno ti avverte quando si volta pagina.
    Mi rifugio in un mondo a stampa, vivo per procura, fuori pericolo, non imparo niente, se non a imbrogliare, a vivere di falsità, e ammazzo il tempo sotto quintali di pagine.

    Janna Carioli, In colonia, collana Gli anni in tasca, Topipittori

    Ecco la scheda del libro e alcune citazioni.

    – Vedrai quanti bei bagni farai! – mi diceva mia madre prima della partenza.
    Credo che il motivo per cui nuoto come un gatto di piombo sia colpa della colonia.
    Il bagno si faceva solo se:
    1) c’era un caldo da schiattare;
    2) non tirava un alito di vento;
    3) il mare era praticamente una tavola di marmo;
    4) non avevi il raffreddore;
    5) a gruppi di cinquanta alla volta;
    6) lo decideva il bagnino;
    7) e, in ogni caso, solo per cinque minuti. 

     Il sabato pomeriggio andavamo tutte in refettorio e ‘scrivevamo a casa’.
    Ci sedevamo sulle panche con la suora o chi per lei, che girava attorno ai tavoli per controllare.
    Ognuna di noi tirava fuori la sua cartolina postale e cominciava a mordicchiare la matita.
    La suora suggeriva, incoraggiava.
    – Su, cominciate. Non è difficile. Basta scrivere: “Cari genitori, sto bene. Mi diverto tanto. Tanti bacini, vostra ecc. ecc.”.
    Noi la guardavamo in silenzio. Qualcuno si metteva a scrivere, la maggioranza aspettava.
    – Chi deve fare la punta alla matita? – chiedeva la suora, speranzosa.
    Usare la matita invece della penna, garantiva il fatto che, se per caso a qualcuna di noi fosse venuto in mente qualcosa che andava cancellato, lo si potesse fare senza stracciare la cartolina.
    Io a sei anni sapevo già scrivere abbastanza bene, così il primo sabato in cui venimmo messe a comporre le nostre cartoline postali scrissi in un bel corsivo:
    Cari genitori, aiuto! Sto malissimo, venitemi a prendere subito! 
    Firmato Janna.

    Federica Iacobelli, La città è una nave, collana Gli anni in tasca, Topipittori

    Ecco la scheda del libro e alcune citazioni.

    Comunista. Ma che voleva dire, comunista? Era difficile, con certe parole. Alcuni le pronunciavano normali, come tutte le altre, altri invece con la voce bassa o con gli occhi di rimprovero o paura. Perché, il papà era comunista? Forse perché non andava mai alla messa di domenica come la nonna e come il nonno? Perché parlava male di certi preti e di quei signori seri della tele e invece bene di quelli strani o matti o anche del sindaco con la bandiera rossa e i baffi? Oppure, ecco, forse era per i baffi: chi aveva i baffi era comunista! E chi era comunista faceva tutto uguale al suo papà: non parlava mai dei soldi e di quanto costa questa cosa o quella e quanto resta dopo in tasca o nella banca, comprava tanti libri e tanti quadri, ma niente macchine o moto o roba d’oro, non si faceva mai pagare i progetti delle case se chi chiedeva aveva pochi soldi, e poi comunque non si vergognava di chiamare ‘amore’ mamma e lei ‘tesoro’.

    “Tu chi vuoi essere, alla Reggia di Versailles?”, chiese a Roberta la bambina, mentre si sedevano nel prato a bere il latte fresco per merenda. (…)
    “Io, Lady Oscar”, rispose Roberta, dopo averci riflettuto qualche istante.
    “Io, Maria Antonietta”, disse allora la bambina. Aveva la bocca mezza rosa e mezza bianca del bianco latte che trangugiato. Maria Antonietta, non aveva scelta, perché sennò erano tutte e due la stessa. E poi Maria Antonietta andava bene. Per la bambina, certo, non per tutti quanti. Maria Antonietta per lei poteva andare. Non era poi così felice, in quella reggia, ma questo nessuno lo capiva. Tutti pensavano: è ricca, è nobile e anche bella. Pensavano che lì si divertisse, ma non era così. E questo, lo sapeva, la bambina. Era per questo che Maria Antonietta nel cartone animato le piaceva. E poi il Conte di Fersen si innamorava di lei e non di Lady Oscar, alla fine, anche se Oscar si metteva un vestito da donna per ballare e anche se lui le faceva i complimenti perché era gentile e gentiluomo. 

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